domenica 30 dicembre 2012

Una recensione di Fausta Genziana Le Piane sui racconti di Giovanni Pistoia


“L’uomo appartiene alla terra”

Dimenticare la propria ombra significa perdere la propria identità

Dalla lettura della raccolta di racconti di Giovanni Pistoia, intitolata Ho dimenticato la mia ombra, photocity, 2011, emerge chiaramente che lo scrittore non ama la città, luogo rumoroso, tumultuoso e affollato che accresce ansia e solitudine. E’ sensibile invece alle bellezze della campagna che, spingendo alla contemplazione dei suoi paesaggi e dei suoi colori, consente rapporti e incontri più umani (Alice). A mio avviso, Giovanni Pistoia è consapevole delle sue radici calabresi e sa che allontanarsene significa perdere la propria ombra, la propria identità Si porta dietro e dentro la campagna (con tutti i suoi abitanti e presenze, dalle galline agli alberi) e la Calabria (sfondi di tutti i racconti) con animo gentile e sognatore. La dimensione del paese, abbandonato talvolta per andare ad abitare in città, con la speranza che sia meglio per le nuove generazioni vivere il respiro della metropoli, ricorre come quella del calore, della vera famiglia, della solidarietà, del tempo da dedicarsi perduti per sempre: nel bellissimo racconto intitolato Vado via con l’astronave gialla, amaro e poetico alla stesso tempo, il protagonista confessa che lassù, sulla sua montagna c’era la sua vera vita e che ora fuori dal suo ambiente soffre di solitudine, in una anonima clinica, annessa ad una grande villa..Non mi vergogno di confessare che ho pianto: “Sono da tempo andato via dalla mia casa di montagna, da tempo ho lasciato la tua casa di città. Da tempo ho cessato di vivere, imparare, studiare, insegnare, lavorare, divertirmi, comunicare. E tu lo sai. Io qui mi sono perso, non trovo ragioni per cercarmi. Neanche i sogni mi fanno più compagnia”. Per chi come me è calabrese quelle colline con le luci non si dimenticano più: “(Cosa ti piace di più del tuo paese?) La sera. quando tramonta il sole e scende il buio. Guardo sempre verso la collina. E vedo tante case illuminate e la collina si riempie di luci di tanti colori. Mia madre dice che è un presepe silenzioso, che tace per non disturbare. Io sono d’accordo. E’ proprio così” (Voci tra le mimose). E infatti è così, a Nicastro, dove sono nata, su per la collina, nell’antico quartiere di San Teodoro, ai piedi del castello di Federico II, d’inverno si realizza un presepe vivente con le riproduzioni delle botteghe degli antichi mestieri…Ma io, al contrario di Giovanni, me ne sono andata, procurandomi uno strappo infinito nell’anima.
Il sogno per Pistoia è essenziale nella vita di tutti i giorni: per lui la realtà triste della vita e della città ha sempre un risvolto positivo, quello del sogno. Sogno che non è mai sterile fantasia ma desiderio di vincere il male e volontà di creare un mondo migliore. Ecco perché i protagonisti dei suoi racconti sono i bambini: il mondo è loro, sarà salvato da loro perché gli appartiene. Insieme, adulti e bambini complici, possono cambiare la società perché, se è vero che gli adulti provano sensi di colpa per non prestare attenzione agli emarginati, ai malati, ai più deboli, per non aver dedicato tempo ai figli ecc., ci sono i bambini a ricordare che non possono farlo. E così sarà Saverio, figlio di Riccardo al quale la mafia ha più volte bruciato il negozio di elettrodomestici per non aver voluto pagare il pizzo, che, diventato magistrato, tornerà al paese per fare giustizia (Il mare è stanco). Ed è ad una bambina, seduta su un robusto ramo di mimosa  (Voci tra le mimose), che il paese dà il compito di salvaguardare la propria esistenza, lasciando in eredità la propria anima ecologica: “Parlane a scuola con gli insegnanti, a casa con i genitori. Con gli amici raccontate delle cose brutte che vedete. Dite come vorreste che fosse il vostro paese. Ditelo, se volete, anche con i disegni, oltre che con le parole”.
E per concludere due osservazioni: una sullo stile, splendido, aderente alla narrazione, perfetto e l’altra sulla presenza del treno (Laggiù, nel paese di Giò) che ha sostituito il cavallo e la diligenza, diventando il simbolo dell’evoluzione. Noi delle vecchie generazioni calabresi abbiamo tutti un parente che lavorava nelle ferrovie: mio nonno era capostazione. Il treno fa sognare, fa partire, fa sperare.

Fausta Genziana Le Piane

Roma, 27 dicembre 2012


Giovanni Pistoia
HO DIMENTICATO LA MIA OMBRA
e altri racconti
Photocity Edizioni 2012

http://ww2.photocity.it/Vetrina/DettaglioOpera.aspx?versione=18291&formato=8517

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venerdì 21 dicembre 2012

NATALE di Giovanni Pistoia


B U O N   N A T A L E


Natale
di Giovanni Pistoia

Natale
nostalgia di futuro
muschio fresco
erba ubriaca di rugiada
pane ancora caldo che fuma tra le dita
neve che si incanta alla vista di un bambino
Natale nostalgia di futuro
di uomini ancora non cresciuti
Natale è per chi ti attende ancora
Natale è sinonimo d’amore
ma l’amore è ancora in fuga
chissà per dove chissà per dove
l’amore fugge fugge sempre
amiamolo per favore
che si fermi almeno un po’
Natale è per chi ti attende ancora.


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domenica 9 dicembre 2012

MAURO LENZI/ LUSTROLA E I LUSTROLESI




MESE DI DICEMBRE*
di Mauro Lenzi

«Ed ecco Dicembre, l’ultimo mese dell’anno.
Giungeva, spesso, col cielo plumbeo, con la nebbia, con la pioggia insistente, con la neve, con il freddo pungente, con il gelo. Nelle case, il caldo era soltanto in cucina, dove il fuoco del camino o della stufa di ghisa riscaldava l’ambiente. Negli altri locali, era freddo come fuori. Al mattino, spesso, i vetri delle finestre delle stanze da letto erano interamente ricoperti di uno strato di gelo dello spessore di alcuni millimetri, a volte; e le pareti rilucevano di puntini luminosi, come se fossero state ricoperte di minutissimi cristallini lucenti. Fuori pendevano dalla gronde o dalle lastre sporgenti dei tetti, i ghiaccioli simili a tante bianche o cris di diversa lunghezza e grossezza.

Le giornate belle, le giornate di sole erano piuttosto rare. Tuttavia, quando capitavano, anche se fredde, allietavano ugualmente lo spirito, in mezzo allo squallore della natura circostante, che, tutta spoglia e dimessa, pareva riposarsi dopo averci dato, largamente, i suoi tesori, abbandonata al pesante sonno invernale.

(…) Noi ragazzi, però, non avevamo paura del freddo. Coi calzoncini corti, le scarpe chiodate, i calzini di lana che lasciavano scoperti i ginocchi, pestavamo la neve tutto il giorno, facendo a pallate o facendo pupazzi o valanghe, cioè grosse palle che si facevano rotolando la neve, quando il sole, splendente nel cielo turchino, scaldava la nave e la rendeva biocca, cioè pesante. Alla sera, le scarpe erano fradice e rosse e i ginocchi bluetti dal freddo.»


*La bella descrizione è tratta dallo splendido volume di Mauro Lenzi dal titolo Lustrola e i Lustrolesi – Voci e memorie dall’Appennino tosco-emiliano e pubblicato dal Gruppo di Studi Alta Valle del Reno – 2012 “La Memoria di Nuèter”.
Il testo, completato intorno al 1990, è ora pubblicato a cura di Anna Luce Lenzi.