Nella pancia della montagna
di Giovanni Pistoia
Si racconta, in alcuni libri, di una storia misteriosa, accaduta in una lontana cittadina e che non si è mai definitivamente conclusa. Si dice, infatti, che la tranquillità di quella città fu turbata dalla presenza, sempre più numerosa, di topi di ogni dimensione. Topi per le vie, nel soffitto delle case, nei depositi della legna e, con il passare del tempo, anche nelle abitazioni. Il sindaco di quella città riunì i suoi consiglieri per prendere una ferma decisione e risolvere il grave problema: gli abitanti non dormivano più per paura di ritrovarsi i ratti tra le lenzuola. Fu deliberato di introdurre nella città un consistente numero di gatti, che certamente avrebbero divorato topi e topastri, che la facevano da padroni. Detto e fatto. Piazze e strade, scale e seminterrati erano diventati campi di battaglia: topi inseguiti da gatti e… udite udite… gatti inseguiti da topi. La battaglia fu dura. Il risultato fu davvero sorprendente: i topi erano tanti e davvero prepotenti e ai gatti non restò altro da fare che andarsene alla chetichella rimettendoci la reputazione. Intanto, l’esercito dei topi cresceva spaventosamente: topi ovunque, perfino tra i giochi dei bambini, nelle aule scolastiche, nelle biblioteche, dove divoravano libri e giornali, forse, per diventare più saggi.
Un giorno si presentò al sindaco di quella città un bizzarro personaggio, vestito come un giullare, con uno strano cappello a imbuto in testa e un aggeggio in mano, una specie di canna con tanti buchi. Disse che era munito di poteri magici e che avrebbe potuto liberare la città da tutte quelle bestiole, che ormai rosicchiavano tutto. Per fare questo lavoro chiese una certa somma di denari. Il sindaco chiamò a raccolta i consiglieri e i cittadini: l’argomento era di grande importanza. Furono informati della proposta e tutti accettarono. Misero solo una condizione: il pagamento avverrà a lavoro concluso, anche perché non erano molto convinti della capacità di quel curioso soggetto. Lo scetticismo aumentò quando costui spiegò che avrebbe allontanato i topi suonando quel suo rudimentale strumento che chiamò piffero.
E così quel suonatore di piffero si esibì in piazza soffiando nel suo arnese. Da quello strumento si diffuse una musica dolce e terribile, accattivante e insidiosa. Un sibilo sottile e freddo, come una lama di coltello, penetrò nelle orecchie dei cittadini, che ascoltavano incantati, increduli e angosciati. Poi, lentamente, dai tombini, dalle cavità, dagli scantinati apparvero topi, topini, topetti, toponi, topastri e si affollarono ai piedi del pifferaio, che notato la presenza di tanti fans, cominciò a camminare sgambettando allegramente. Il pifferaio attraversò piazze e vie, mentre un lungo corteo di topi neri e grigi lo seguiva disciplinatamente. Il pifferaio si allontanò, pigramente, dalla città e si avviò per i campi vicini, attraversò, sempre suonando il suo magico strumento, boschi e dirupi e si addentrò, con le sue lunghe gambe, nelle acque del fiume più grande del posto. I topi non capirono il tranello e, ipnotizzati dalla melodiosa e subdola musica, annegarono tutti in quelle fredde acque.
Il pifferaio era stato di parola. Si presentò alle autorità, che festeggiavano la fine di quel terribile malanno, a chiedere il compenso dovuto. Ma la risposta fu un uragano di risate canzonatorie e grossolane; senza mezzi termini fu invitato a lasciare il paese. Il pifferaio non disse una parola. Si aggiustò il cappello e, voltando le spalle a quegli ingrati, ricominciò a suonare, accompagnato da epiteti sconvenienti. L’ilarità di quei cittadini durò poco. Si accorsero, ben presto, che al suono misterioso del piffero non seppero resistere alcuni ragazzini della città. Incantati dalle note magiche, seguirono quel fantasioso pifferaio. La città si accorse rapidamente che alcuni dei suoi bambini erano spariti nel nulla: il pifferaio li aveva portati con sé. Giunto davanti ad un’alta montagna, che aveva la forma del suo bislacco cappello, col suo piffero emise un lungo suono. La montagna si aprì e il pifferaio entrò, con tutto il suo seguito di ragazzi, per rinchiudersi alle spalle dell’allegra comitiva. All’interno di quella montagna vi erano altri bambini e altri pifferai. I ragazzini appena arrivati si guardarono negli occhi e, particolarmente quelli più grandicelli, capirono molto presto che erano vittime di una brutta avventura. Compresero molto bene che quel pifferaio dall’aria scanzonata non era un loro amico. La storia della caccia ai topi era un trucco per distrarre gli abitanti della città. Gli adulti non si erano certamente comportati bene con il pifferaio ma a costui, più che i soldi, interessava portare via i bambini. Lo intesero leggendo negli occhi tristi degli altri ragazzi le loro storie, osservando i comportamenti degli altri uomini: tutti pifferai che volevano giocare usando i bambini come fossero giocattoli di pezza. Capirono anche che quegli uomini stavano preparando altri congegni, più moderni e più efficaci, per distrarre gli adulti e conquistare la fiducia dei ragazzini. Ormai in molte città il gioco del piffero era stato scoperto e grandi e piccoli non ci cascavano più. Quei pifferai sapevano molto bene che ai ragazzi piaceva, e piace ancora molto, il computer, navigare su internet per fare le ricerche scolastiche, giocare, visitare luoghi lontani e sconosciuti, ascoltare musica, conoscersi, usare la posta elettronica, i forum, le chat e fare tante altre cose belle. E allora cosa s’inventarono quegli apparenti giocherelloni? S’inventarono giochi affascinanti e nuove stregonerie, tanti tranelli, insomma, per far cadere nella loro rete i bambini più sprovveduti, approfittando di genitori distratti o inconsapevoli di quelle magie.
Tutto questo afferrarono i ragazzini più intelligenti, prigionieri nella grande pancia della montagna. E compresero anche che quei giochetti erano utilizzati in molte parti facendo soffrire tanti bambini e piangere i genitori all’oscuro, fino a quel momento, di tutto. Tutti quei ragazzi, parlandosi con gli occhi, capirono che dovevano preparare qualcosa per scappare da quel posto desolato. Dovevano farlo per salvare se stessi e per avvertire, genitori, nonni e, soprattutto, gli altri bambini della minaccia che si stava diffondendo contro di loro.
Ma come fare per darsela a gambe? La paura era tanta. Molti di quei bambini non avevano la forza per una così grande fuga. I ragazzini più vispi cercarono di farsi coraggio e di aiutare gli altri. Una sera c’era molto caldo nella pancia della montagna e un pifferaio decise di farvi entrare un po’ d’aria. Uno stretto passaggio si aprì. Tra i pifferai, d’improvviso, scoppiò una discussione assai animata. I ragazzini approfittarono del buio, della distrazione e della complicità silenziosa di un pifferaio pentito per sgusciare piano piano dallo spiraglio aperto. I ragazzini ritornarono, così, nei loro paesi e nelle loro città e raccontarono, raccontarono a tutti la loro disavventura. Urlarono al mondo intero le cose terribili che avevano capito e visto. Implorarono i genitori, i nonni, i loro maestri di ascoltarli, difenderli dai malvagi pifferai dallo sguardo incantevole.
Questa storia si legge in alcuni libri, ingialliti, di tanti anni fa, ma anche in alcuni più recenti, scritta su carta patinata e con belle illustrazioni. Chi racconta, ancora oggi, questi avvenimenti, narra che in tanti hanno ascoltato il grido di quei bambini scappati dalla pancia della montagna. Ma narra anche che sono molti a restare tuttora indifferenti, mentre i ragazzini urlano, urlano ancora.
Nella pancia della montagna
di Giovanni Pistoia
disegni di Cosimo Budetta
31 luglio 2011
NOTA
Il racconto è apparso per la prima volta nella rivista “Mondiversi” (anno IV, n. 6, ottobre 2006). Ripreso da alcuni siti: www.mondiversi.it; www.fondazionedeluca.it; http://giovannipistoia.blogspot.com (21 0ttobre 2007). È riproposto con leggere variazioni.
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