lunedì 28 febbraio 2011

L'ultimo sorriso del vento



L’ultimo sorriso del vento


Era una quercia. Sprizzava energia da tutte le parti. Basso e robusto. Un amicone. Di chi sto parlando? Di un vecchio conoscente della mia adolescenza. Se volete, seguitemi.

Abitavo, all’epoca, in una frazioncina vicino a una stazione ferroviaria di un ricco centro mercantile. Vagoni ferroviari andavano e venivano continuamente, di giorno e di notte. La gente, in quel periodo di tanti decenni fa, viaggiava con il treno, ora non più. I treni, ora, transitano raramente. Si viaggia con grandi autobus. In quel pezzo dello Stivale il progresso, si fa per dire, ha prodotto meno treni e più autobus. In quel periodo tanta merce si trasportava con i vagoni: legname, barbabietole, sacchi di cemento, automobili, e tanti altri prodotti. Il trasporto avviene, ora, su mezzi gommati, che sono la delizia delle nostre autostrade.


I miei compagni andavano spesso nella stazione a vedere i binari sempre affollati. Li seguivo e mi appassionai a quel trambusto, tintinnii di campanelli, passaggi a livello che si aprivano e si chiudevano, operai che caricavano e scaricavano merci. Eravamo molto attenti quando i vagoni trasportavano barbabietole: ne cadevano tante lungo i binari, e noi a raccoglierle. Ne prendevamo qualcuna, con pazienza la pulivamo e ne mangiavamo dei pezzi. Le barbabietole raccolte le portavamo a degli amici che allevavano maiali: ci regalavano sempre qualcosa. A volte capitava di trovarci tra le mani delle carrube, a noi piacevano, non erano per niente male.

Eravamo diventati amici dei tanti operai che facevano facchinaggio, un lavoro pesante, a volte, per tutta la giornata. Per noi c’era sempre qualcosa. Anche se dovevamo stare un po’ lontano dallo spazio dove avveniva il carico-scarico (si scaricava della merce in arrivo e si riempivano i vagoni di quella in partenza), altrimenti venivano i ferrovieri e ci allontanavano.

Uno di questi operai, che lavorava quasi sempre a dorso nudo, era Pietro. Era giovanissimo, ma il più forte di tutti. Era a capo di una squadra, tutta sua, e per fare lavorare tutti con ritmi sostenuti, lui dava l’esempio. Non si fermava mai. Aveva delle braccia robuste, delle spalle quadrate; era un pozzo di energia. Si fermava solo per bere dell’acqua. Nelle pause gli operai mangiavano insieme tra i binari, quando il tempo era cattivo o il sole scottava troppo in un vagone. Pietro, e non solo lui, beveva del vino. “Mi serve per asciugare i sudori”, diceva. E noi a berne un goccio “ma solo per fargli compagnia”.

L’ho rivisto, con sorpresa, questa mattina seduto su una panchina sotto un albero senza foglie. In verità, pensavo fosse morto da un bel po’, invece era lì, molto avanti negli anni. Minuto, tutto il suo corpo racchiuso in cappotto sgualcito. Solo alcuni lineamenti del viso ricordavano il giovane guerriero della stazione ferroviaria. Non mi ha riconosciuto. Un amico seduto con lui, anziano pure lui ma molto più giovane, mi ha detto che non ricorda quasi più niente. Lo assistono generosamente alcuni vicini. La moglie è morta alcuni anni fa, i figli non si occupano di lui. E lui ha sempre detto no al ricovero in un pensionato, perché vuole morire nella sua casa, dove ha cresciuto, con fatica, sei figli, quattro uomini e due donne, che ora l’hanno lasciato solo, ora che non serve più. Una foglia in attesa dell’ultimo sorriso del vento.

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