mercoledì 21 dicembre 2011

Su Dante Maffia di Luigi Celi



Poesie Torinesi e Abitare la cecità di Dante Maffia
Una testimonianza di Luigi Celi

I due libri di Dante Maffia Poesie Torinesi e Abitare la Cecità - entrambi edizioni Lepisma, Roma 2011 - centrati su uno stile di semplicità, non smarriscono caratteristiche che sono di molte delle precedenti opere di questo Autore, ormai giustamente noto in Italia e all’estero: 1) la profondità - anche in una versificazione che sembra prediligere le superfici, le apparenze del reale -; 2) la ricerca di fluidificare al massimo il nesso tra significante e significato; 3) lo sforzo di approdare a un linguaggio prossimo alle esperienze basse e al parlato, che riproduca sinestesicamente l’alienazione, la amplifichi fino al surreale, al paradossale, senza limitarsi a descrivere. Ne vien fuori una tessitura del verso spesso lacerata, a volte disarmonica, come una musica dodecafonica. Specialmente in Poesie Torinesi Maffia adotta toni stranianti, termini triviali, filo e groviglio d’Arianna per affrontare il labirinto cittadino da punti di vista multipli, ambienti degradati, individui alla deriva in un contesto in disfacimento, fatiscente, rancido, a cui fa da contraltare, a sprazzi - in questo mondo gelidamente gravato dalle nebbie e dalla sopraffazione - il lirismo di alcuni lacerti, lirismo che si accentua per altro, specialmente, in qualche sezione di Abitare la Cecità.
  

I toni bassi e alti - prevalenti i primi - coesistono in equilibrio solo per la perizia di una scrittura non sperimentale, ma sperimentata negli anni. Si nota l’effetto in feed back, sulla poesia, delle riuscite prove di narratore dell’Autore. Ricordo in particolare il romanzo Mi faccio Mussulmano, testimonianza di mutamenti epocali, di una follia individuale che riflette quella della deriva sociale di un mondo multietnico, disancorato, disfatto, un universo di sporcizia e di degrado, aspetto della globalizzazione e del disadattamento di chi ha perso punti certi di riferimento valoriale e coordinate antropologiche, e non si identifica nelle sicurezze borghesi che hanno segnato la modernità. Il libro culmina con una emigrazione a rovescio dall’Italia all’Africa.

La scrittura in poesia e in prosa poetica di Maffia ricade non certo nella forma banale del minimalismo, ma appare composita articolazione di diversi registri, da quello che occhieggia alla filosofia, in quanto Maffia entra nel merito, seppure tangenzialmente, per i riferimenti a Vattimo, Nietzsche, Vico e Bobbio - declina un doppio percorso nel fare metapoesia in poesia –, a quell’altro che rimane ancorato a una ricerca linguistica d’impianto strutturale e fa prevalere il gusto e la pratica seriamente giocosa dell’affabulazione sui meri contenuti di dettaglio, sulla descrizione d’oggetti e d’ambiente. Si evidenzia la commistione di realismo e metarealismo, si compie un viaggio nel “corpo grottesco”, nel tempo biologico scandito da nutrizione, defecazione, sesso, in questo caso però meno che nel carnevalesco di Bachtin, anche se a volte con ironia. Maffia è inventivo nel vedere il “piccolo topo che rosicchiava pecorino” e diventare “subito lui” (pag. 29), o nell’offrirci una scena da teatro dell’assurdo, alla Ionesco: i vicini che protestano di notte per la tromba che senza che nessuno la suoni squilla alle tre del mattino (pag. 34). Lo stile eccentrico, l’uso di un collage a scatole cinesi, i racconti dentro il racconto (testi e sottotesti), il narrare in terza persona, sono operazioni che si intrecciano alle venature di un originario e sguincio lirismo. Un lirismo che non ama le bellurie e i toni enfatici.

Il percorso di elaborazione incessante e di trasformazione mimetica del linguaggio - che è della sua storia di scrittore, poeta, critico - impone la primazia del linguaggio come gusto di un suo esercizio kantianamente riflettente, rispetto ai contenuti materiali, nella dialettica di langue e parole, e ciò è sia del momento strutturale, in diacronico/sincronico riferimento alla storia e alle tradizioni della letteratura straniera e italiana, di cui Maffia si fa erede e interprete, sia di un più individuale momento operativo, che si misura con problematiche personali, opportunamente schermate e metamorfizzate, che si dilata fino a dar voce alle afasie dell’umanità sofferente, ai disadattati, agli emigranti, emarginati, barboni, prostitute, assassini, malati mentali, come già era avvenuto ne Lo specchio della mente del 1999. In queste due raccolte, il libero gioco di poesia e metapoesia si produce, dunque, quasi senza darlo a vedere, perché la poesia non diventa mai astrazione, ma rimane ancorata al corpo in movimento dei sentimenti in conflitto, delle sensazioni anche più disgustose, come ai pensieri necessariamente profondi a cui induce questa messa in scena teatrale dell’orrore sociale e individuale, in cui molti sono precipitati nell’oggi. Nondimeno, il portato dell’inevitabile filosoficità di ogni produzione artistica, per chi è figlio dell’Occidente, è proprio il lavoro sulla struttura linguistica, ed è ciò che colpisce. Le innovazioni strutturali dei testi ricordano certe procedure del Montale delle Occasioni, per l’attenzione - come scriveva Giorgio Zampa - agli “istanti fatali dell’esistenza”, quelli che si danno “quando in un baleno è possibile intravedere una realtà diversa o una diversa disposizione della realtà, di afferrare un senso, un rapporto imprevisto e imprevedibile”. La struttura linguistica – come la libido di un bigamo - si sposa, dunque, con una poetica e con la realtà, in un approccio conflittuale, e pur quando la poesia sembra farsi poesia di cose, mai essa si riduce a mera rappresentazione, piuttosto si esprime in prospettive liquide, e perciò anche filosoficamente ermeneutiche... Una poesia che si fa interpretazione? Che insegue la filosofia sul terreno del “pensiero debole” o di quant’altro? Una poesia che fa l’occhiolino alla filosofia, per quanto Quasimodo sostenesse che i filosofi sono i nemici naturali dei poeti ?! Certamente ciò avviene per contrasto e rovesciamento attraverso il paradosso e il grottesco, proprio quando Maffia sembra più prediligere una presentazione di oggetti e di situazioni in apparenza banali. G. Gozzano, che percepisco come uno dei numi tutelari di questa sua svolta, scriveva: “il fanciullo sarò tenero e antico che sospirava al raggio delle stelle, che meditava Arturo e Federico”.

In Poesie Torinesi - seguendo dunque Nietzsche e Vattimo - Maffia scrive: “le verità/ stanno in superficie, a Piazza Galimberti,/ ai Mercati Generali,/ solo che sono mutevoli/ per via della luce,/ delle ombre,/ dei rumori, e si mostrano diverse/ da come effettivamente sono,/ o si nascondono”.
... Se nel prosieguo della lettura ci colpisce la fisicità dei rimandi, l’esperienza culta e insieme concreta, violenta dei luoghi, delle strade, dei quartieri della Città, nondimeno è altrettanto importante l’assunzione di uno schema narrativo policentrico, l’utilizzazione della terza persona, emblematica di un poetare in maschera, secondo la lezione del “modernismo” novecentesco, che va da Pound, a Eliot a Pirandello, allo stesso Montale. Il suo è un poiein ellittico, una creazione d’immagini, di storie metaforizzate, di allegorie, di ritmi che guardano al labirinto borgesiano, alla sua “cecità” poeticamente abitata, quale problematizzazione, anche emozionale, della natura tragicamente politica dell’esistenza – una novità, non tanto nuova, anche questa, nella poesia di Maffia! – che mi fa pensare al suo forse non troppo amato Pasolini, a certi scrittori americani, a un Herry Miller influenzato dai surrealisti - e d’altra parte Miller ha frequentato gli autori che ruotavano proprio intorno a Villa Seurat, e lì ha conosciuto Lawrence Durell -, mi fa pensare alla Beat Generation, in particolare a Jack Kerouac e a un Bukowki più urbanizzati. Per dirla con Miller, ritengo di poter collocare Maffia, per questi due libri almeno, tra i “Fuorilegge della parola”.

Maffia metabolizza il diverso con una scrittura tutta sua, chiusa forse “nel buio di significati inesplosi”, oppure implosi in una rivisitazione che è un’anamnesi di una mercuriale identità personale e collettiva (tale è l’astuzia della poesia, differente dall’hegeliana “astuzia della ragione”), che gli consente di muoversi come un Proteo, per continui slittamenti semantici e su più piani, cosa che gli fa scrivere dei suoi ricordi, della miseria del Sud e del Nord, delle contraddizioni dell’Italia formalmente unita e sostanzialmente divisa. Una discesa agli inferi e anche un viaggio ulissiaco, il suo, per l’Italia sia del passato sia contemporanea, che egli percorre intera e che lucida con i suoi versi di smeriglio come si può lucidare - trasfigurando di verità e quindi nettando poeticamente - il suo metaforico stivale, sporcato dalla malversazione, dalle mafie, da una storia iniqua, che è dello Stato, della cultura e della società civile. La sezione di Abitare la Cecità che mi ha catturato maggiormente è Rovistando in Soffitta, in essa le cose morte risuscitano di memorie sfrangiate, di sogni allegorizzanti, nostalgie e rimpianti: “Qui il passato non è dimenticanza,/ ma docile danza di un domani/ che esiste e non avverrà”. Gli oggetti del solaio non sono cose, ma platoniche ombre impermanenti che richiamano anche il giapponese “mondo fluttuante” dell’ukiyo-e, di cui ci parla Gillo Dorfless. Essi si muovono e prendono vita come disegni di un cartone animato - gozzanianamente, anche - ed è questo continuo riferirsi alla tradizione nella innovazione il gran merito di Maffia, pur nella sua attuale svolta linguistica e prospettica, che sposa oggi (chissà domani) questa linea totalmente antidannunziana. Essi sono più ancora come l’Odradek di Kafka, che “soggiorna, secondo i casi, in soffitta, per le scale, nei corridoi, nel vestibolo” e di cui Walter Benjamin scrisse che “è la forma che le cose assumono nell’oblio. Esse sono deformate e irriconoscibili”. Chiudo dunque con i versi di Abitare la Cecità, ricchi di onirismo lirico, che è importante confrontare a specchio con la cifra prevalentemente narrativa e corrosiva di questi due bei libri. I versi in questione, animati da un nugolo di forme barocche, non sostanziali, cangianti, metaforizzano il nostro tempo, quale tempo non deterministico, non splengeriano, del Tramonto dell’Occidente, al cui liquido fluttuare intendiamo abbandonarci per un istante di inquietudine e di riposo: “La debolezza delle forme/ che non esistono per sé, ma si determinano/ a seconda del punto di vista/ a seconda della direzione del vento/ (...) La forza delle forme/ che s’innalzano come cattedrali/ di qualcosa che esiste e si disfa/ in altre forme. L’inedia delle forme/ e quel loro rigurgitare di ragnatele/ che creano un girotondo, spalancano/ finestre e lucentezze di acquario”

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