LA
POESIA DI DANTE
MAFFIA
nell’opera “Al macero
dell’invisibile”
Anna Maria Vanalesti*
Non ci chiederemo chi è
Dante Maffìa, poiché sarebbe inutile ripetere ciò che moltissimi critici hanno
affermato di lui, elencando le sue innumerevoli opere, poetiche ed esegetiche,
che dimostrano un lungo cammino da testimone del proprio tempo e un’inarrestabile
attività intellettuale. Proveremo piuttosto a cogliere e ad esprimere la
qualità della sua poesia, com’è oggi, giunta ad un traguardo che lungi dal
farci pensare al pascoliano araldo di Alexandros nell’atto di squillare la tromba, davanti alla luna e alla
fine delle sue conquiste, lascia invece presagire un interessante futuro, nuovi orizzonti e terre
promesse. Una miniera d’oro inesauribile, quindi, la produzione di Maffìa, una
miniera dalla quale ci aspettiamo che egli sappia ricavare ancora sorprendenti
tesori.
Ma da dove viene tanta
vitalità, da dove tanto sacro fuoco che lo spinge a sfidare, novello satiro
Marsia (come seppe ben intuire il critico Rocco Salerno), un Apollo mai pago di
competere con le voci dell’uomo? La risposta è insita nell’umanità stessa del
poeta, nella sua indole indomita di ricercatore della verità, nella sua
congenita ossessione di pervenire all’invisibile e trovare la chiave che apre
la porta dell’ignoto, che gli consentirà di immergersi nell’autenticità
dell’Essere e di soddisfare per sempre la sua ansia di assoluto. Questo spiega
non soltanto le molte e complesse tematiche della sua poesia, che poi si
riconducono tutte alla medesima e unica matrice, l’identità dell’uomo, ma anche
quel fervore continuo di decifrazione e decodificazione del mondo, che la
pervade al suo interno e la conduce in un territorio reale e occulto insieme,
ove attraverso il linguaggio si compie in pieno il prodigio del canto.
Dicevamo il “linguaggio” e
parlavamo di “canto” perché non si può capire l’universo poetico di Maffìa
senza partire da questi due connaturati elementi.
Non siamo di fronte ad una
lingua smaliziata e sperimentale, né ad un esercizio stilistico irto di
elaborati virtuosismi, siamo di fronte ad un eloquio che ha come sua prioritaria
caratteristica la comunicabilità, l’intento cioè di rendere partecipi gli altri
di ciò che si sta trasmettendo. Dal che la cantabilità che sola può nascere
dalla comunicazione, perché il canto deve arrivare al cuore di chi ascolta e di
conseguenza, non può che partire dal cuore.
Saba diceva che “senza il
cuore la saggezza è un gioco” e Maffìa sa che senza il cuore in lui c’è
mutismo, c’è l’impossibilità di far poesia. Ce lo conferma nella lirica in
limine al volume Al macero dell’invisibile: Non sentivo ragioni/se non potevo
abbracciare interamente / tutto il
creato. In quell’abbraccio, c’è il cuore del poeta, la sua affettuosità per il
creato, la sua panica partecipazione all’universo. E’ da qui che bisogna muovere
per ricostruire l’itinerario che lo ha portato a buttare al macero dell’invisibile i suoi accordi
musicali fatti di parole, non per rinunciare ad inseguirli, ma per sfidare
ancora una volta gli enigmi e dominare e gestire l’ingordigia del vivere. Il
libro si compone dunque, passo passo, come un’autobiografia, intensa,
profondamente rivissuta e analizzata, dove dall’infanzia, popolata di pruni
selvatici, all’adolescenza giocosa ma pensosa, fino alla maturità, si muove
dapprima il piccolo Dante, sotto lo sguardo vigile di una madre regale pur nei
suoi dolori, poi il fanciullo frastornato da cari rumori, da cari paesaggi
della sua terra altera e frustrata al contempo, infine si fa largo l’uomo, che
lascia il suo paese, per altre città falsamente ricche (Milano ad esempio),
portandosi però con fierezza, per sempre dentro di sé, come un emblema
inconfondibile, l’appartenenza alla sua terra di Calabria. La mappa del
percorso da realizzare in questo viaggio, la mappa che il poeta tiene ben
stretta per non smarrirsi è la poesia, curiosamente definita da lui uovo sodo
dimenticato in una radura, in quella radura dove sola può vivere, perché la
poesia non ha bisogno/ della prima pagina dei quotidiani,/ né di battiti di
mani: non è il sogno/ della cronaca. Preferisce
radure / /vecchi campanili e marine. Il singolare è che questa mappa
viene continuamente ispezionata ed interpretata, perché il poeta Maffìa non si
accontenta di scrivere poesia per quel bisogno primigenio di scrittura insito
in lui, ma vuole capire che cosa sia la stessa poesia, svolgendo una perenne
esegesi di essa, come già Pontiggia mise in evidenza nella prefazione al lavoro
La castità del male leggendovi una sorta di “ermeneutica incorporata al testo”
allo scopo di orientare il lettore. Questo accade anche nell’opera che stiamo
esaminando, ove il lettore è sorretto per tutto il testo da un filo
ermeneutico, quasi da nascoste istruzioni per l’uso, che il poeta ci fornisce,
tornando qua e là sul tema della poesia e del poetare, interrogandosi e
interrogando per comprendere e far comprendere quanto sta facendo. In questo
itinerario lavora con la sottrazione e la riduzione, sfrondando “il troppo e il
vano” dal suo dettato poetico, negandosi all’enfasi perché la parola possa
diventare eco sonora che dà linfa e lume. Egli sente che vivere è quasi entrare
in una parola e assume l’atteggiamento tipico del poeta che medita e pensa,
siede come sedeva Leopardi per mirare
oltre la siepe. Dice spesso, infatti, che sta seduto ( sono seduto e penso),
nel momento in cui pensa alla vita, al passato, alle strade che ha percorso,
alle perdite subite, alla malattia dentro la quale si vive morendo, a tutti gli
aspetti dell’esistenza che gli si avvolgono addosso con il loro peso e non lo
lasciano sereno, ma lo trafiggono facendogli sentire la sofferenza dell’umanità
infelice, quella sofferenza che il poeta recanatese tentò di incatenare alle
pendici del Vesuvio, per poterla consolare col suo immortale canto,
metaforizzato nel profumo della ginestra. Maffìa sa tutto questo, conosce il
dolore dell’uomo, ha saputo raccogliere l’eredità dei grandi poeti nel guardare
alle sciagure umane, qualcuno gli ha riconosciuto una matrice foscoliana, ma
credo che in lui si tratti piuttosto di una capacità di “canto”, di un rinnovo
di “quell’intermittenza del cuore” di cui parlava Ungaretti, che ci consente di
tanto in tanto di riconoscere nella sua poesia e particolarmente in questo
volume, accenti ora foscoliani, ora leopardiani, ora inconsapevolmente sabiani,
ora persino danteschi, ma che altro non sono se non echi di un patrimonio
culturale e poetico che Maffìa si porta dentro e che trasalgono spontanei in
lui, inserendosi in un contesto personalissimo e originale.
Il senso della precarietà
della vita, avvertito in tutta la sua ineluttabile drammaticità presiede nella
mente del poeta ogni qualvolta si accinge a cantare, e scolora le cose, gli
ambienti, i volti polverizzandoli in una dolorosa contemplazione che nulla
toglie però alla loro bellezza, anzi li restituisce ad una dimensione di
intatto valore esistenziale, come appassiti sogni che tentano un’ultima danza:
sul mio cuscino appassiti sogni tentano / un’ultima danza e nella tracotanza
del / volere gli appigli si snervano. Si rifletta su quella tracotanza del
volere che tradisce l’ostinazione dell’uomo di non rinunciare ai sogni e quindi
alla vita e alla ricerca della felicità.
E veniamo all’operazione”canto”. Come si
genera, come si crea? C’è nei versi di Maffìa un azzardo perenne alla rima, che
si distanzia dalla tradizione, collocandosi raramente in fin di verso, per preferire
una posizione chiasmica, o iniziale, così da poter realizzare assonanze
improvvise, coppie baciate non
necessariamente finali, ( per vedere deragliare i treni/ e godere dell’orgasmo
dei freni, cinguettio di rosso). Nè è da sottovalutare il ricorso all’accumulo
delle immagini, che consente di creare un continuum fluente, per dirla alla
Contini, melodico e accattivante. Si considerino ad esempio questi versi: so
che accadono eventi nei quali / accadono altri eventi e venti di / profumi
irrorano le pendici le scoscese / piramidi dell’irresolvibile / i profumi
inusitati e fragili spargono / per il bosco – favola le ingiurie dei /
menestrelli amici degli amici…. E’ come se si producesse un’onda lunga che non
si spezza, finché non si interrompe il canto e che mentre rivela il turbinio
visivo del poeta, ne traccia il diagramma del sentimento, in un climax
ascendente che si spegne poi in un desiderio foscoliano di pace ( non riesco a morire in pace nella
mediocrità che mi perseguita).
L’accumulo è anche di oggetti,
oltre che di immagini, di presenze che ingombrano la memoria di Maffìa e
appartengono al suo vissuto e al suo passato. Si affollano rumori, gridi, e
oggetti, come casseruole, tegami, sedie, carabattole varie che popolavano le
sue giornate di bambino, edificando quasi un corredo materiale e memoriale,
saldo e irremovibile nel tempo. A quel corredo ritorna il poeta ridando voce ai
gesti delle persone, ai suoni delle cose, aggrappandosi a questi richiami
lontani, utilizzandoli, come merce di scambio, per salvarsi dalla confusione
del presente e del consumismo quotidiano. Naturalmente per ridare voce a tutto
ciò lo sorregge l’allitterazione che garantisce al verso una fluidità e una
scorrevolezza altrimenti impossibile.
Senza dubbio gli effetti
migliori del canto Maffìa li raggiunge quando rivive il suo paese e ricorda la Calabria, la Calabria che lo scirocco
sferza…la Calabria
che pretende amore. Il canto diventa invocazione e l’invocazione si fa
preghiera; la sacralità della sua terra spinge il poeta ad un’esaltazione
spirituale, proclamando e negando le proprie radici, cercando e fuggendo
l’appartenenza, benedicendo e maledicendo le origini, ma sempre cercando in
esse il suo rifugio più autentico. Maffìa rimane il calabrese vero che si è
fatto romano senza rinnegare la regione natia, elevandola a categoria
universale del vivere, togliendole i connotati regionalistici, per
emblematizzarla in condizione esistenziale e un’operazione del genere, compiuta
da altri grandi come Verga, Pirandello e Svevo, volendo citare qualche esempio,
solo attraverso il canto si poteva compiere, perché il canto sottrae ogni
paesaggio ai suoi stretti limiti geografici e periferici, per consegnarlo
all’universalità senza confini. Non è
tuttavia vano canto quello innalzato da Maffìa
per la Calabria,
è anche lotta, messaggio, fiera protesta, contro chi vorrebbe vedere un
Meridione sempre debole e derelitto, incapace di rialzarsi dai colpi della
sorte, bisognoso di aiuti . Lo dice chiaramente nella sezione intitolata Il mio
paese e una digressione: da noi il dopoguerra è stato più lungo…..ma come vedi
non siamo morti / di denutrizione….finiamola di raccontarci bugie…i computer
funzionano anche a Roseto. E per rispondere a chi rimprovera a qualche
calabrese di non essere andato al fronte si chiede: Perché avrebbe dovuto
andare al fronte?/ Per chi? Non aveva mai sentito nominare / Piave,
Tagliamento….sparare su un altro?/ Per prendergli la casa?/ aveva la sua,
fabbricata / mattone su mattone con le sue mani. Qui la poesia non si scioglie
in canto, ma diviene dura risposta ragionata e i versi si mutano in prosa
scattante, per interrogativi retorici, in un’ ipotesi di dialogo con gli
accusatori della sua gente, in un disperato tentativo di cancellare le menzogne
(io sono stanco delle menzogne / stanco di rincorrere il passato/ Una civiltà
vale l’altra. Se penso che la mia / fu dilaniata dai Piemontesi….) Ciò dimostra
che in Maffìa non sempre la corda vincente è quella canora, perché quando la ribellione e lo sdegno prendono il sopravvento,
il canto non può levarsi e cede il posto alla sferza civile, che si abbatte
sulla politica, sui rivoluzionari, su certe città del nord chiuse nella loro
ottusa industrializzazione e su tutte le forme di falsità.
Del resto, in questa
poesia ampia di temi e di spunti non manca l’impegno civile e politico, che
mantenendosi entro i limiti e i livelli del legittimo sfogo, si esprime come
bisogno di eticità e di autenticità, ansia di onestà di intenti e desiderio di
ritorno ai valori sostanziali della vita. Quando il pensiero va a questi valori
il canto risorge e tra essi si collocano prioritariamente gli affetti
familiari, a contatto dei quali il cuore si riempie di tenerezza. Così nei
versi dedicati alle figlie, o in quelli dedicati alla donna e alla madre.
Infine cede al canto, qualche volta, anche la voglia di scherzi, linguistici si
intende, come nella composizione scritta per Bologna, dove la descrizione della
città diventa gioco, gli aggettivi diventano quasi trasformismi di lettere
(dotta, ghiotta, gotta) e contribuiscono a creare un’atmosfera, un quadro, un
bozzetto d’ambiente, dentro il quale si muove il poeta con le sue sensazioni
pulsanti.
E’ questo il linguaggio di
Maffìa, è questo lo spazio – canto, in cui è costruito questo volume ed è
composta questa autobiografia singolare
che ha tanti personaggi e aspetti e sviluppi, ma un solo vero
protagonista, il poeta, alla ricerca di sé e della sua identità .
*Il testo appare con il
titolo:
Dante Maffia: Al macero dell’invisibile
nel numero 25 (aprile
2012)
della Rivista
Internazionale
Poeti e Poesia
diretta da Elio Pecora
Buona giornata mondiale del libro!!!
RispondiEliminaBuona giornata anche a te.Stammi bene! Un salutone
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