lunedì 23 aprile 2012

LA POESIA DI DANTE MAFFIA nell’opera “Al macero dell’invisibile” Anna Maria Vanalesti*





LA POESIA DI DANTE MAFFIA
nell’opera “Al macero dell’invisibile”
Anna Maria Vanalesti*



Non ci chiederemo chi è Dante Maffìa, poiché sarebbe inutile ripetere ciò che moltissimi critici hanno affermato di lui, elencando le sue innumerevoli opere, poetiche ed esegetiche, che dimostrano un lungo cammino da testimone del proprio tempo e un’inarrestabile attività intellettuale. Proveremo piuttosto a cogliere e ad esprimere la qualità della sua poesia, com’è oggi, giunta ad un traguardo che lungi dal farci pensare al pascoliano araldo di Alexandros nell’atto di  squillare la tromba, davanti alla luna e alla fine delle sue conquiste, lascia invece presagire un  interessante futuro, nuovi orizzonti e terre promesse. Una miniera d’oro inesauribile, quindi, la produzione di Maffìa, una miniera dalla quale ci aspettiamo che egli sappia ricavare ancora sorprendenti tesori.


Ma da dove viene tanta vitalità, da dove tanto sacro fuoco che lo spinge a sfidare, novello satiro Marsia (come seppe ben intuire il critico Rocco Salerno), un Apollo mai pago di competere con le voci dell’uomo? La risposta è insita nell’umanità stessa del poeta, nella sua indole indomita di ricercatore della verità, nella sua congenita ossessione di pervenire all’invisibile e trovare la chiave che apre la porta dell’ignoto, che gli consentirà di immergersi nell’autenticità dell’Essere e di soddisfare per sempre la sua ansia di assoluto. Questo spiega non soltanto le molte e complesse tematiche della sua poesia, che poi si riconducono tutte alla medesima e unica matrice, l’identità dell’uomo, ma anche quel fervore continuo di decifrazione e decodificazione del mondo, che la pervade al suo interno e la conduce in un territorio reale e occulto insieme, ove attraverso il linguaggio si compie in pieno il prodigio del canto.

Dicevamo il “linguaggio” e parlavamo di “canto” perché non si può capire l’universo poetico di Maffìa senza partire da questi due connaturati elementi.
Non siamo di fronte ad una lingua smaliziata e sperimentale, né ad un esercizio stilistico irto di elaborati virtuosismi, siamo di fronte ad un eloquio che ha come sua prioritaria caratteristica la comunicabilità, l’intento cioè di rendere partecipi gli altri di ciò che si sta trasmettendo. Dal che la cantabilità che sola può nascere dalla comunicazione, perché il canto deve arrivare al cuore di chi ascolta e di conseguenza, non può che partire dal cuore.

Saba diceva che “senza il cuore la saggezza è un gioco” e Maffìa sa che senza il cuore in lui c’è mutismo, c’è l’impossibilità di far poesia. Ce lo conferma nella lirica in limine al volume Al macero dell’invisibile: Non sentivo ragioni/se non potevo abbracciare interamente /  tutto il creato. In quell’abbraccio, c’è il cuore del poeta, la sua affettuosità per il creato, la sua panica partecipazione all’universo. E’ da qui che bisogna muovere per ricostruire l’itinerario che lo ha portato a buttare  al macero dell’invisibile i suoi accordi musicali fatti di parole, non per rinunciare ad inseguirli, ma per sfidare ancora una volta gli enigmi e dominare e gestire l’ingordigia del vivere. Il libro si compone dunque, passo passo, come un’autobiografia, intensa, profondamente rivissuta e analizzata, dove dall’infanzia, popolata di pruni selvatici, all’adolescenza giocosa ma pensosa, fino alla maturità, si muove dapprima il piccolo Dante, sotto lo sguardo vigile di una madre regale pur nei suoi dolori, poi il fanciullo frastornato da cari rumori, da cari paesaggi della sua terra altera e frustrata al contempo, infine si fa largo l’uomo, che lascia il suo paese, per altre città falsamente ricche (Milano ad esempio), portandosi però con fierezza, per sempre dentro di sé, come un emblema inconfondibile, l’appartenenza alla sua terra di Calabria. La mappa del percorso da realizzare in questo viaggio, la mappa che il poeta tiene ben stretta per non smarrirsi è la poesia, curiosamente definita da lui uovo sodo dimenticato in una radura, in quella radura dove sola può vivere, perché la poesia non ha bisogno/ della prima pagina dei quotidiani,/ né di battiti di mani: non è il sogno/ della cronaca. Preferisce  radure / /vecchi campanili e marine. Il singolare è che questa mappa viene continuamente ispezionata ed interpretata, perché il poeta Maffìa non si accontenta di scrivere poesia per quel bisogno primigenio di scrittura insito in lui, ma vuole capire che cosa sia la stessa poesia, svolgendo una perenne esegesi di essa, come già Pontiggia mise in evidenza nella prefazione al lavoro La castità del male leggendovi una sorta di “ermeneutica incorporata al testo” allo scopo di orientare il lettore. Questo accade anche nell’opera che stiamo esaminando, ove il lettore è sorretto per tutto il testo da un filo ermeneutico, quasi da nascoste istruzioni per l’uso, che il poeta ci fornisce, tornando qua e là sul tema della poesia e del poetare, interrogandosi e interrogando per comprendere e far comprendere quanto sta facendo. In questo itinerario lavora con la sottrazione e la riduzione, sfrondando “il troppo e il vano” dal suo dettato poetico, negandosi all’enfasi perché la parola possa diventare eco sonora che dà linfa e lume. Egli sente che vivere è quasi entrare in una parola e assume l’atteggiamento tipico del poeta che medita e pensa, siede  come sedeva Leopardi per mirare oltre la siepe. Dice spesso, infatti, che sta seduto ( sono seduto e penso), nel momento in cui pensa alla vita, al passato, alle strade che ha percorso, alle perdite subite, alla malattia dentro la quale si vive morendo, a tutti gli aspetti dell’esistenza che gli si avvolgono addosso con il loro peso e non lo lasciano sereno, ma lo trafiggono facendogli sentire la sofferenza dell’umanità infelice, quella sofferenza che il poeta recanatese tentò di incatenare alle pendici del Vesuvio, per poterla consolare col suo immortale canto, metaforizzato nel profumo della ginestra. Maffìa sa tutto questo, conosce il dolore dell’uomo, ha saputo raccogliere l’eredità dei grandi poeti nel guardare alle sciagure umane, qualcuno gli ha riconosciuto una matrice foscoliana, ma credo che in lui si tratti piuttosto di una capacità di “canto”, di un rinnovo di “quell’intermittenza del cuore” di cui parlava Ungaretti, che ci consente di tanto in tanto di riconoscere nella sua poesia e particolarmente in questo volume, accenti ora foscoliani, ora leopardiani, ora inconsapevolmente sabiani, ora persino danteschi, ma che altro non sono se non echi di un patrimonio culturale e poetico che Maffìa si porta dentro e che trasalgono spontanei in lui, inserendosi in un contesto personalissimo e originale.

Il senso della precarietà della vita, avvertito in tutta la sua ineluttabile drammaticità presiede nella mente del poeta ogni qualvolta si accinge a cantare, e scolora le cose, gli ambienti, i volti polverizzandoli in una dolorosa contemplazione che nulla toglie però alla loro bellezza, anzi li restituisce ad una dimensione di intatto valore esistenziale, come appassiti sogni che tentano un’ultima danza: sul mio cuscino appassiti sogni tentano / un’ultima danza e nella tracotanza del / volere gli appigli si snervano. Si rifletta su quella tracotanza del volere che tradisce l’ostinazione dell’uomo di non rinunciare ai sogni e quindi alla vita e alla ricerca della felicità.
E veniamo all’operazione”canto”. Come si genera, come si crea? C’è nei versi di Maffìa un azzardo perenne alla rima, che si distanzia dalla tradizione, collocandosi raramente in fin di verso, per preferire una posizione chiasmica, o iniziale, così da poter realizzare assonanze improvvise, coppie baciate  non necessariamente finali, ( per vedere deragliare i treni/ e godere dell’orgasmo dei freni, cinguettio di rosso). Nè è da sottovalutare il ricorso all’accumulo delle immagini, che consente di creare un continuum fluente, per dirla alla Contini, melodico e accattivante. Si considerino ad esempio questi versi: so che accadono eventi nei quali / accadono altri eventi e venti di / profumi irrorano le pendici le scoscese / piramidi dell’irresolvibile / i profumi inusitati e fragili spargono / per il bosco – favola le ingiurie dei / menestrelli amici degli amici…. E’ come se si producesse un’onda lunga che non si spezza, finché non si interrompe il canto e che mentre rivela il turbinio visivo del poeta, ne traccia il diagramma del sentimento, in un climax ascendente che si spegne poi in un desiderio foscoliano di pace  ( non riesco a morire in pace nella mediocrità che mi perseguita).
L’accumulo è anche di oggetti, oltre che di immagini, di presenze che ingombrano la memoria di Maffìa e appartengono al suo vissuto e al suo passato. Si affollano rumori, gridi, e oggetti, come casseruole, tegami, sedie, carabattole varie che popolavano le sue giornate di bambino, edificando quasi un corredo materiale e memoriale, saldo e irremovibile nel tempo. A quel corredo ritorna il poeta ridando voce ai gesti delle persone, ai suoni delle cose, aggrappandosi a questi richiami lontani, utilizzandoli, come merce di scambio, per salvarsi dalla confusione del presente e del consumismo quotidiano. Naturalmente per ridare voce a tutto ciò lo sorregge l’allitterazione che garantisce al verso una fluidità e una scorrevolezza altrimenti impossibile.

Senza dubbio gli effetti migliori del canto Maffìa li raggiunge quando rivive il suo paese e ricorda la Calabria, la Calabria che lo scirocco sferza…la Calabria che pretende amore. Il canto diventa invocazione e l’invocazione si fa preghiera; la sacralità della sua terra spinge il poeta ad un’esaltazione spirituale, proclamando e negando le proprie radici, cercando e fuggendo l’appartenenza, benedicendo e maledicendo le origini, ma sempre cercando in esse il suo rifugio più autentico. Maffìa rimane il calabrese vero che si è fatto romano senza rinnegare la regione natia, elevandola a categoria universale del vivere, togliendole i connotati regionalistici, per emblematizzarla in condizione esistenziale e un’operazione del genere, compiuta da altri grandi come Verga, Pirandello e Svevo, volendo citare qualche esempio, solo attraverso il canto si poteva compiere, perché il canto sottrae ogni paesaggio ai suoi stretti limiti geografici e periferici, per consegnarlo all’universalità  senza confini. Non è tuttavia vano canto quello innalzato da Maffìa  per la Calabria, è anche lotta, messaggio, fiera protesta, contro chi vorrebbe vedere un Meridione sempre debole e derelitto, incapace di rialzarsi dai colpi della sorte, bisognoso di aiuti . Lo dice chiaramente nella sezione intitolata Il mio paese e una digressione: da noi il dopoguerra è stato più lungo…..ma come vedi non siamo morti / di denutrizione….finiamola di raccontarci bugie…i computer funzionano anche a Roseto. E per rispondere a chi rimprovera a qualche calabrese di non essere andato al fronte si chiede: Perché avrebbe dovuto andare al fronte?/ Per chi? Non aveva mai sentito nominare / Piave, Tagliamento….sparare su un altro?/ Per prendergli la casa?/ aveva la sua, fabbricata / mattone su mattone con le sue mani. Qui la poesia non si scioglie in canto, ma diviene dura risposta ragionata e i versi si mutano in prosa scattante, per interrogativi retorici, in un’ ipotesi di dialogo con gli accusatori della sua gente, in un disperato tentativo di cancellare le menzogne (io sono stanco delle menzogne / stanco di rincorrere il passato/ Una civiltà vale l’altra. Se penso che la mia / fu dilaniata dai Piemontesi….) Ciò dimostra che in Maffìa non sempre la corda vincente è quella canora, perché quando  la ribellione e lo sdegno prendono il sopravvento, il canto non può levarsi e cede il posto alla sferza civile, che si abbatte sulla politica, sui rivoluzionari, su certe città del nord chiuse nella loro ottusa industrializzazione e su tutte le forme di falsità.

Del resto, in questa poesia ampia di temi e di spunti non manca l’impegno civile e politico, che mantenendosi entro i limiti e i livelli del legittimo sfogo, si esprime come bisogno di eticità e di autenticità, ansia di onestà di intenti e desiderio di ritorno ai valori sostanziali della vita. Quando il pensiero va a questi valori il canto risorge e tra essi si collocano prioritariamente gli affetti familiari, a contatto dei quali il cuore si riempie di tenerezza. Così nei versi dedicati alle figlie, o in quelli dedicati alla donna e alla madre. Infine cede al canto, qualche volta, anche la voglia di scherzi, linguistici si intende, come nella composizione scritta per Bologna, dove la descrizione della città diventa gioco, gli aggettivi diventano quasi trasformismi di lettere (dotta, ghiotta, gotta) e contribuiscono a creare un’atmosfera, un quadro, un bozzetto d’ambiente, dentro il quale si muove il poeta con le sue sensazioni pulsanti.
E’ questo il linguaggio di Maffìa, è questo lo spazio – canto, in cui è costruito questo volume ed è composta questa autobiografia singolare  che ha tanti personaggi e aspetti e sviluppi, ma un solo vero protagonista, il poeta, alla ricerca di sé e della sua identità .


*Il testo appare con il titolo:

Dante Maffia: Al macero dell’invisibile
nel numero 25 (aprile 2012)
della Rivista Internazionale
Poeti e Poesia
diretta da Elio Pecora


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