Ho dimenticato la mia ombra
di Giovanni Pistoia
La mia vita è un pendolo. Sono un uomo diviso in due. Ondeggio. È terribile vivere in queste condizioni. Sono rientrato da tre giorni dalla città dove lavoro, ho voglia di ripartire subito. Qui non trovo più i miei vecchi amici d’infanzia, conosco poca gente. Neanche i luoghi da me frequentati sono più gli stessi. Li trovo malinconici, privi di vita. Anche il castello ha perso il suo fascino: lo preferivo misterioso, inaccessibile per noi ragazzi che giocavamo ai suoi piedi. Il mio non è un paese piccolo, certo non è Milano, eppure sembra disabitato: vi sono auto, non persone. L’orologio, qui, segna un tempo diverso. A volte mi pare che sia fermo, altre volte che torni indietro, altre volte ancora mi pare che si muova, sia pure lentamente. Ho deciso: anticiperò la partenza. Ho tanti impegni su, qui mi annoio.
Giuseppe, un amico dai tempi della scuola elementare, mi trascina, quasi con forza, sulle colline del paese. Il cielo è terso, l’aria è frizzante. Milano, da qui, è davvero lontana, tanto lontana. Faccio fatica a piegarmi per bere da una fonte che è ancora lì, nonostante gli anni. Era il luogo dei nostri incontri giovanili. Lasciavamo per terra cartelle, giacche, e veloci a giocare al pallone nel comodo spazio. Una piccola pianura ben protetta. Si sceglieva quel posto per la presenza di quella sorgente: l’acqua vi scorreva sempre, fresca, limpida. Una spruzzata sul viso sudato e via… a menare calci da campione. Ancora una volta quell’acqua compie il miracolo. Riprendo a camminare con più energia, Giuseppe fa fatica a tenermi dietro. Attraversiamo un piccolo avvallamento di terreno, poi iniziamo una salita che non è cosa da poco per chi non è più nell’età verde. Ma lo sforzo è compensato, una volta giunti sulla sommità di una collina, da un paesaggio magnifico.
Lo spettacolo che mi appare, che ci appare, è bellissimo. Lo sguardo si perde tra valli, terrapieni e alture, alberi secolari e fuscelli appena nati. Un cielo di un azzurro chiaro chiaro fa da sfondo a rami e fogliame. I colori sono tantissimi. Pur non essendo in primavera, in questi luoghi ogni stagione ha colori per chi sappia vedere e essenze vitali per polmoni malandati. Da qui, caro Giuseppe, Milano è lontana. Ancora una passeggiata attraverso un sentiero e, poi, ancora su un colle. Mi appoggio a un albero gigante, con un tronco vuoto, quasi una piccola stanza. Davanti, in lontananza, le acque dello Jonio e, poi, ancora, una lunga catena montuosa. Riconosco quel posto. Da lì vedevo il mare che, lambendo la costa, disegnava un cuore, o qualcosa di simile. Giuseppe sorride. Penso che mi stia prendendo in giro e, invece, conferma tutto. Sì, è vero, si vedeva proprio il profilo di un cuore gigantesco. Ora non è più così perché lì è stato costruito un porto, che ha notevolmente modificato la morfologia del posto.
Giuseppe, non lo senti questo silenzio? Le case sono lontane, le strade e il rombo dei motori pure. Come è assente Milano da qui! Come mi è difficile pensare alla metropolitana, che pure è il mio pane quotidiano, mentre il mio sguardo si perde tra piante, vallate, discese, colline.
Tu mi hai portato qui, caro Giuseppe, perché sai che questi posti mi riconciliano alla vita, eppure… eppure questo silenzio mi inquieta. Mi pone domande. E io resto muto. Vorrei nascondermi dentro un folto cespuglio: chi sa se riuscirei a non sentire, né le rotaie del metrò né questi silenzi che amo e che odio. Da ragazzo, ho abitato in un casolare vicino alla fiumara. Il rumore dell’acqua, quando scivolava via con forza durante l’inverno, era per me un pugno nello stomaco. Volevo andare il più lontano possibile, non ascoltarlo mai più. Sono andato via, lontano. E la voce di quel fiume mi manca. Sapessi come mi manca! E quando ritorno, cerco quella fiumara… inutilmente. Solo ciottoli, sassi sul quel letto. Anche l’acqua non scorre più.
Sai, Giuseppe, che mi succede? Quando sono in treno, anzi in autobus considerato che anche le ferrovie hanno fatto qualche passo indietro, e mi avvicino alla città dove lavoro e vivo ormai da tantissimi anni, mi sento rivivere. È come se uscissi da un tunnel: gioisco nel rivedere la luce. Però, però sai che mi accade? Dopo qualche giorno, dopo aver ripreso la mia vita abituale, mi riappare il paese: le strade, la montagna, il mare, il cielo, le cose belle, e anche le tante brutture. Comincio a guardare il calendario e cerco di organizzarmi per l’estate, oppure per un lungo ponte di vacanza; tento di guadagnarmi uno spazio per ritornare. Intanto, cerco di non perdere i contatti con quei pochi amici e parenti del paese. Mi tengo informato navigando su internet, visitando i siti, che mi riportano notizie e foto del mio territorio. Sai, Giuseppe, qui, da Milano, il mio paese e la mia regione non sono lontani, sono inesistenti. Nel migliore dei casi, puntini opachi lontani dalla storia. Credimi, in queste condizioni non si vive bene. I miei figli, invece, del loro paese, dove alcuni sono nati, non ne vogliono sapere. Se vengono giù è solo per farmi contento.
Eccomi qui, sotto questa tettoia, mentre una pioggia sottile danza con la brezza. Dopo neanche dieci giorni dal mio arrivo in paese, sono, ancora una volta, con te, mio caro vecchio buon Giuseppe, ad attendere l’autobus che mi riporterà nel nord.
La prima volta che sono partito, te lo ricordi? c’eri anche tu alla stazione ferroviaria. Ero molto triste quella sera, lasciavo mia moglie e due bambini piccoli. Ma, a distanza di tanti anni, sono contento di essere partito. Cosa avrei fatto qui? Ma, soprattutto, quale futuro avrei dato ai miei figli?
Parlai molto quella sera… Sì, parlai molto. Lo ricordo bene. Cercavo di farmi forza, di convincere me stesso che stavo facendo una cosa giusta. Cercavo di infondere negli altri quella serenità che non avevo. Ebbene, forse questo particolare non lo ricordi, dopo qualche giorno mi spedisti una tua poesia, e mi scrivesti che, in un certo senso, fui io a ispirarti, mentre guardavo mia moglie… ecco, la porto sempre con me… è uno dei miei legami con il paese… ti vorrei ringraziare per questo.
Ecco l’autobus, scostiamoci un po’ dalla banchina. Il grosso mezzo si ferma lentamente. L’autista frettolosamente apre il bagagliaio e ci invita a fare presto: il vento, ora, è più forte e la pioggia sferza i volti. Siamo in tanti a partire. Succede sempre così dopo un periodo di ferie. Sistemo la mia valigia aiutato dal solito Giuseppe. Un abbraccio. Una stretta di mano. Un sorriso. Mi sistemo accanto ad un finestrino dell’autobus, mentre ho come vicino uno studente, che ritorna nella sua sede universitaria. “A presto!”, dice ad alta voce Giuseppe, mentre l’autobus lascia la sua corsia pigramente per immettersi sulla strada e confondersi nel traffico.
Caro Giuseppe, sono giunto a Milano, ho ripreso la mia valigia. E sai che ho scoperto? Non ho trovato la mia ombra. L’ho dimenticata nel mio paese. Mi capita sempre così: quando metto piede nel mio paese, mi accorgo di averla lasciata in città; quando sono in città, di averla dimenticata nel mio paese. Giuseppe, come è faticoso vivere senza la propria ombra!
Ho dimenticato la mia ombra
di Giovanni Pistoia
L’albero delle mele d’oro
2 settembre 2011
NOTA
Il racconto è apparso per la prima volta nella rivista “Mondiversi” (anno VI, n. 1, gennaio-febbraio 2008). Ripreso da alcuni siti:
http://giovannipistoia.blogspot.com (9 marzo 2008).
È riproposto con leggere variazioni.
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