domenica 11 settembre 2011

La luce delle parole di Dario Bellezza




La luce delle parole
di Dario Bellezza


Quando il mito della poesia decade, per un poeta che non voglia considerarsi in pensione, giubilato dalla sua stessa accidia, non resta che una recita pubblica, di fronte a se stesso, come imperterrito faceva Sandro Penna, che si era ritagliato nella società letteraria, dove tutti, soprattutto i mediocri producono a tutto spiano, la parte impunita del poeta che non scrive più. E non sappiamo quanto era vera, ma certo Penna, fedele alla sua immagine giovanile, non voleva deturparla con una diversa immagine, e solo alla fine della vita, pochi mesi prima di morire volle aggiungere al suo “corpus” poetico che non aveva fatto altro che, negli anni, ritoccare, fino alle due edizioni del 1957 e del 1970 presso Garzanti, appunto “Stranezze”. Gliene venne una furia contro se stesso, e non so dire fino a che punto, la morte. Non volle, non voleva il premio Bagutta, e mi telefonò quando gli era già stato assegnato, per dirmi che quel premio portava male, e lo avrebbe ucciso. Così già Penna pagava, anzi espiava il suo mito della poesia nel quale religiosamente era vissuto pur non scrivendo più. Per lui la poesia era realtà, la Realtà, anche se una tutta sua, particolare, come un folle, piccolo vangelo al quale per sempre ubbidire, e che doveva smorzarsi nella vita vera, la vita da altri poeti cantata come assente, volata via nella presunzione di “esserci”. Ora, ho tirato fuori questo “mito della poesia” per più di un motivo, considerando me stesso ad una svolta importante della mia vita, e dunque anche della mia poesia, dove appunto la poesia sta progressivamente decadendo, e la selva oscura in cui mi aggirerò nel futuro, se futuro ci sarà, prevede prosa, prevede oltraggio, prevede certo morte, ma tutto il resto è ormai lontano, come fosse per l’eternità passato. Ora, appunto, mi riesce difficile prendere sul serio la poesia, parlarne, sentendo fortissimo un senso di interdizione, di proibizione, di malattia. Il mio tempo è passato, ed io non sono più un poeta. Consideratemi, nella superbia della mia affermazione, un ex poeta. Così, Dante Maffia, invece, mi viene incontro dai suoi due libretti finora pubblicati, con l’enorme presunzione di coltivare questo mito perenne, e non sa che forse, per una consonanza diabolica, anche per lui si sta aprendo una deriva, una morte provvisoria che riguarda certo la vita, o meglio, la perdita progressiva della giovinezza, con le sue illusioni e i suoi ideali, che fanno “scrivere”, non c’è dubbio.
  

Ma non prevarichiamo, non prevarico come al solito? Devo rendere testimonianza a mio modo, come io so, come appresi nel duro esercizio della poesia, contro le mode, della poesia di Maffia, quella scritta, che mi viene incontro dai due suoi libri pubblicati, “Il leone non mangia l’erba” e “Favole impudiche” del 1977, che sono, a mio avviso, fra i più alti raggiungimenti che la poesia italiana, “giovane”, postavanguardia, ha raggiunto, e nel dare questa testimonianza devo pur replicare il mio apocalittico pensiero, e cioè che la poesia è morta, ed è morta perché è morta la pietà.
La poesia si nutre di pietà, di religiosità, di natura, di assoluto, di ideologica fede nella vittoria sul dolore e sulla morte, e tutto ciò può nel furore che le è proprio divulgarlo come messaggio all’infedele mondo che la tradisce continuamente, cercandosi le sue proprie strutture e i suoi propri ritmi, metri e fantasie che oggi giorno dopo la barbarie, nemica della vita, della neoavanguardia hanno subito un grave tracollo. Maffia, nel suo coraggioso procedere ha voluto ripristinare una figura di poeta a tutto tondo, dove domini insieme alla parenesi e alla gnomica soprattutto la liricità, e questo si nota più nel primo, felicissimo libretto che è una improvvisa, calzante resa alla Tradizione, ma rivisitata con memoria ferma e cuore inquieto, e assapora fino al delirio come solo un vero poeta sa. In ciò Maffia può apparentarsi, nel culto per il suo natio borgo selvaggio, al primo Pasolini, di “La meglio gioventù”, scantonando fino a certe aperture di “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, ma senza, di Pasolini, la polemica stringente che gli derivava dalla sua diversità e che gli impediva di crescere in una vera, religiosa solidarietà con tutti gli umani.
Ho sottolineato, all’inizio, forse ingiustamente, e commettendo violenza, in una forsennata proiezione che forse in Maffia, come in me, il mito della poesia decade. Non è un pronostico, o un vaticinio, ma una considerazione che parte dal suo secondo libro, “Le favole impudiche” dove il tono di Maffia, come liberatosi, in parte, di Penna, e Sinisgalli, di Gatto e di Quasimodo, cerca altri approdi, più mentali, meno leggeri e surreali. Di qui, la nostra considerazione blasfema e precisa che vuole segnare un corso, o un momento della nostra povera storia di umiliati, e forse grandi poeti di un’Italia distrutta e senza valori di cui si nutriva la poesia; un’Italia derelitta e abbandonata alla volgarità montante del consumismo, di una borghesia vorace e sotto culturale che non sa che farsene dei poeti. Forse affamarli, forse ucciderli.
E non resta dunque che rifugiarsi nei deserti della memoria: il che può suonare sconfitta solo a coloro che non hanno la luce delle parole che ha Maffia.


NOTA
La testimonianza di Dario Bellezza è del 1978. Il testo dattiloscritto e firmato dall’autore è riportato nella raccolta di poesie di Dante Maffia “Poesie Torinesi”, Edizioni Lepisma, Roma maggio 2011.

Nessun commento:

Posta un commento