lunedì 18 aprile 2011

Quando al mattino il cielo è cupo




Quando al mattino il cielo è cupo


In un paese lontano, tanto lontano da qui, un’ombra gigante e grigia, inquietante e silenziosa, a volte, copre il cielo e le nuvole, il sole del mattino e quello della sera. Avvolge gli abitanti, che, cupi e senza fiato, aspettano che quella grande cappa possa svanire nel cielo limpido, sotto il sole che riscalda, oppure essere risucchiata dal mare spumeggiante le cui onde sembrano lanciare un grido di dolore rivolto alla luna taciturna.
  
Un giorno di tanto tempo fa, in quella località, da tanti mai conosciuta, apparve un uomo venuto da altre terre, parlava una lingua sconosciuta, negli occhi un altro mondo, nel cuore, certamente, tanti affetti. La barba grigia e incolta non nascondeva del tutto il suo viso emaciato e senza età. Non aveva un lavoro, viveva di espedienti, così diceva la gente che lo conosceva. Cercava un tozzo di pane, qualche buon samaritano lo accontentava. A volte non chiedeva, qualcuno, però, pensava ugualmente a quell’uomo, che presto impararono a chiamare Boris. Ma niente di più. Non aveva una fissa dimora, affermavano gli abitanti, che avevano, invece, una casa tutta per loro.
Il suo passo era incerto, zoppicava vistosamente. Un ramo nodoso, raccolto chi sa dove, era il suo indispensabile strumento di viaggio. Senza quel miracoloso arnese sarebbe stato impossibile per lui camminare. In una mano il bastone, nell’altra un cartoccio: tutto il suo patrimonio. Parlava piano, forse per timidezza, forse per scandire nel miglior modo possibile le poche parole che conosceva del suo nuovo mondo. Si faceva, comunque, capire. Del resto aveva poche cose da dire a chi aveva poca voglia di ascoltare.
Lo ascoltavano, invece, e lo capivano benissimo i bambini, che, spesso, lo attorniavano e lo accompagnavano nel suo spostarsi da un portone a un altro, da una panchina all’altra. All’inizio non fu facile questo approccio. La gente del posto era diffidente. Non conosceva quell’uomo spuntato un mattino d’estate, approdato in quel remoto angolo, venuto chi sa da dove. I genitori non volevano che i loro ragazzi frequentassero quel mendicante, che parlava un’altra lingua e aveva un altro colore di pelle. Ma col tempo un po’ tutti cominciarono a conoscere Boris.
Era buono Boris. Non avrebbe mai fatto male a una mosca. E quando qualche ragazzaccio lo prendeva in giro, Boris lo fissava con occhio paterno, raccoglieva i suoi stracci, si appoggiava, con movimenti lenti e a fatica, al bastone, e si allontanava. Non voleva disturbare. E col tempo i bambini e i ragazzini erano diventati un po’ i suoi amici, che lo scortavano e, spesso, lo aiutavano e lo difendevano anche da altri compagni un po’ bulli. Uno in particolare era il suo amico prediletto, Francesco. Per tutti era il francese, perché nato in Francia da genitori emigrati in quello stato. Francesco voleva bene a Boris, gli era simpatico. E la sera, prima del rientro a casa, il ragazzo passava a salutare Boris, lasciandolo sempre in posti diversi, quasi sempre senza un tetto.
E così avvenne anche quella sera d’autunno, con un cielo che non prometteva niente di buono, quando Boris, più stanco del solito, cascò, sfinito, su quella panchina di ferro, dura e fredda.

Quella sera, Boris si raggomitolò, chiuso nei suoi vestiti da povero, su quella panchina per trascorrervi un’altra notte, nascosto agli sguardi indiscreti. Cosa pensasse quella sera Boris, mentre sistemava la sua gamba malconcia su quella panchina, nessuno può dirlo.  Al suo passato? avrà pure avuto un passato, dei genitori che lo avevano messo al mondo, una madre che certamente lo aveva partorito. Avrà avuto una famiglia tutta sua? una moglie? dei figli? e ora, dove erano? erano vivi, oppure no? Perché Boris era così, povero, solo, senza una casa, un lavoro.

Ma qualcun altro, nel buio della notte, aveva ben altri pensieri. E veniva assalito da demoni oscuri. Si portò vicino a Boris e decise di divertirsi un po’ con quel diavolo di un uomo senza storia, senza patria, forse ritenuto neanche un uomo ma un accidente catapultato dallo spazio.

Il bastone della vita di Boris divenne uno strumento di morte. Qualcuno colpì un corpo già martoriato. Fu colpito Boris, e non poté difendersi. Boris non poté scappare, fu colpito ripetutamente da un bastone, da quel bastone nodoso. Boris morì.

La luna, quella notte, vide tutto.

Il mattino successivo un uomo intravide, a terra, un cencio. Capì. Il vento della notte aveva asciugato quel corpo senza respiro. Grumi di sangue avevano abbeverato la terra salmastra.

In quella lontana località tutto continuò serenamente, come se niente fosse accaduto. Tacque il paese. Qualcuno, in verità, disse qualcosa. Qualche vocina, pubblicamente, si fece sentire, timidamente. Pochi altri usarono toni più forti, commenti più determinati, ma in privato, a voce bassa.
Il paese tacque. Restarono mute le campane della pietà e quelle della solidarietà; rimasero in silenzio le voci della politica; non fiatarono le istituzionali. Silenzio degli abitanti delle fisse dimore. Tacquero, un po’ nascondendosi il viso, i genitori dei tanti bambini amici di Boris, che chiedevano, chiedevano, chiedevano. Tacquero i genitori di Francesco, quando Francesco li interrogava, guardandoli negli occhi, senza fare domande, invocando una spiegazione.


In quel lontano, tanto lontano paese, un’ombra gigante e grigia, inquietante e silenziosa, a volte, copre il cielo e le nuvole, il sole del mattino e quello della sera. Avvolge gli abitanti, che, cupi e senza fiato, sperano che quella grande cappa possa svanire nel cielo limpido, sotto il sole che riscalda, oppure essere risucchiata dal mare spumeggiante le cui onde sembrano lanciare un grido di dolore rivolto alla luna taciturna.
C’è chi dice che quell’ombra grande quanto un grande paese è l’ombra di Boris, di Boris che non trova pace e aspetta, aspetta che qualcuno si ricordi di lui, che non dimentichi la sua morte avvenuta in una notte assurda su una panchina di ferro sotto i colpi di un bastone nodoso, mentre tutti dormivano riscaldati da buone coperte. Aspetta che la comunità non taccia più, che il paese, che aveva cominciato ad amare, sciolga le sue campane al vento e prenda a parlare, perché non capiti più a nessuno quello che è accaduto a lui, perché i tanti Boris siano ascoltati.
I bambini di quel lontano paese, da quel brutto giorno, raccontano questa storia: quando il cielo è cupo e il sole si nasconde dietro un velo minaccioso, è Boris che ritorna. Appare per ricordare ai grandi che è tempo di svegliarsi e a loro, ai bambini e ragazzi, di prendere per mano il paese e farlo volare, come vola un aquilone.


Quando al mattino il cielo è cupo
di Giovanni Pistoia
disegni di Cosimo Budetta
18 aprile 2011


NOTA
Il racconto è apparso per la prima volta nella rivista “Mondiversi” (anno II, n. 6, novembre/dicembre 2004). È pubblicato con lo stesso titolo nel volume: Giovanni Pistoia, Rovi e ali di farfalle, Fondazione Carmine De Luca/mondiversi, ottobre 2006. Ripreso da alcuni siti web: www.mondiversi.it; www.fondazionedeluca.it; http://giovannipistoia.blogspot.com (21 ottobre 2007). È riproposto con leggere variazioni.

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