domenica 4 marzo 2012

Un raffinato dispetto al diavolo





Un raffinato dispetto al diavolo
di Giovanni Pistoia


È una raccolta di circa novanta paginette, un vero gioiello di versi in dialetto. La musicalità della poesia, l’intensità lirica dei contenuti, tutto è ampliato e reso più vellutato dall’uso della lingua d’origine. E così frammenti di ricordi, scaglie di cielo e di mare, piume di volti, ali di uccelli, vecchie note musicali, squame di azzurro e chiazze gialle, riempiono l’animo del poeta; e si avvera, così, il miracolo della poesia vera: rapisce e incanta il lettore.

L’editore Marsilio di Venezia, nella collana diretta da Cesare Ruffato, nel 2000, pubblica il volumetto di Dante Maffia Papaciòmme (Spaventapasseri). Il poeta aveva già fatto conoscere le sue poesie in dialetto in tre volumi: I rùspe cannarùte (Le rane golose) con prefazione di Claudio Magris, Scheiwiller editore, Milano 1995, finalista al Premio Viareggio; A vite i tutte i jùrne (La vita quotidiana), con prefazione di Giacinto Spagnoletti, Carte Segrete, Roma 1987, Premio Acireale e Premio Lentini; U Ddìje poverìlle (Il Dio povero), con prefazione di Angelo Stella, Scheiwiller, Milano 1990, Premio del Brutium del Presidente Walter Pedullà, Premio Lanciano, Finalista Premio Viareggio.
  

Papaciòmme conferma ed esalta ulteriormente la qualità, alta, della poesia di Maffia. Il dialetto qui si mostra ancora di più lingua e, cosa non secondaria, lingua materna, strumento essenziale per poter meglio scavare nel passato, nella memoria, dare corpo e anima a un’esistenza che è stata e che rivive, attraverso la poesia, nella dinamicità dei nostri giorni; inseguire radici per continuare a volare.

Il dialetto usato da Maffia è quello del suo paese natio, Roseto Capo Spulico, in provincia di Cosenza e, più precisamente, per come ama dire e scrivere il poeta, nella Sibaritide. Roseto è nel cuore, come lo definiscono i linguisti, della “zona Lausberg” (Trumper 1980, Paolo Martino 1991); Dante Maffia utilizza il dialetto con rigoroso rispetto dei canoni tradizionali, pur inserendolo in un nuovo contesto derivato dall’avvento degli strumenti di comunicazione di massa, come, in particolare, la televisione. Il dialetto di Maffia è nudo e crudo, senza orpelli, cedimenti campanilistici; nessuna ombra di folclore, dilettantismi, impennate retoriche, cadute romantiche, enfasi o infatuazioni. È la lingua della mamma, della sua esperienza di uomo, della sua gente, degli eventi, delle emozioni: e di quali codici servirsi per decodificare il proprio vissuto, per dare corpo e sangue alle ombre di un passato, che ci accompagna fino alla fine, se non alla magia fascinosa del dialetto e della musicalità di altri tempi e altri spazi?

Per rendere più comprensibili i testi, il poeta ha evitato una scrittura strettamente filologica; la godibilità della lettura ne è avvantaggiata, pur tuttavia ne riporta la tradizione in italiano. Maffia traduce se stesso, così come lo fa con altri testi, calabresi o classici, così come legge, recita, analizza composizioni in romanesco, napoletano, lucano, friulano. Il dialetto, in sostanza, non divide l’Italia ma, nella ricca diversità, la unisce. L’omologazione, in effetti, è solo apparente unità, danneggiandone, tra l’altro, l’humus e la ricchezza culturale.

Mentre tanti poeti laureati, per dirla con l’amato Montale, non si sporcano le mani con il dialetto (quasi una forma di cultura minore, da dilettanti allo sbaraglio), Maffia ne esalta le capacità espressive, ne succhia l’anima, lo spirito, ne divora i sapori: ne fa vera e qualificata poesia. Anche la critica letteraria, per molto tempo, restia a dare i giusti meriti al dialetto, si è modificata nel tempo. E se le cose sono un po’ cambiate, e la poesia che si esprime nel dialetto non è più figlia di un dio minore, è grazie anche al contributo critico dello stesso Maffia e della sua poesia.

In fondo la privazione del dialetto è storia che viene a mancare e, forse, il poeta, più semplicemente, cerca di recuperare, attraverso i versi, che lo prosciugano e nello stesso tempo lo irrorano, un po’ di quella storia che gli è stata rubata. E non solo a lui:

A stòrie arrubbète

Ohimmène, a ntròve cchiù
a stòrià mèje,
s’ane frechèt’i saracìne,
è rumàste nta cantìne
a se fè cìte?
O mpàreche chè nge sùne
stòrie pe nesciùn’e tùtte
sìme scegàzz’i na sère,
scegliùzz’i nìve,
rùit’i primavère.

La storia rubata

Ohimè, non trovo più
la mia storia,
se la sono fregata i saraceni,
è rimasta in cantina
a farsi aceto?
O forse non ci sono
storie per nessuno e tutti
siamo spiffero di una sera,
singhiozzo di neve,
brusìo della primavera.

In tanti hanno parlato, e bene, del poeta e date risposte al perché Maffia, di tanto in tanto, mette da parte la lingua italiana e si diletta con il dialetto, che è morto o sta per esserlo: Spagnoletti, Loi, Piromalli, Stella, Magris, Pedota, etc. Lo fa, secondo me, per un motivo molto semplice e non rilevato: egli è poeta in lite costante con il diavolo. Sa, Maffia, che quando muore una lingua il diavolo è contento. E

( … )

Quànne nàsced’angùne
che vè recugliènne nutìzzie
i sta lìnghe’e quìll’ète
u diàggue nzèrred’i dìnte,
i pìde s’arrevògliene
nti còrne da lùne.

Quando nasce qualcuno
che raccoglie notizie
di questa lingua o di quell’altra
il diavolo serra i denti,
i piedi s’aggrovigliano
nei corni della luna.

Se il diavolo ci mette la coda stia attento, perché può sempre esserci, al momento opportuno, la zampata di qualcuno pronto a pestargliela. Ecco,
il dialetto di Maffia è un dispetto al diavolo, che non ama né la parola né, tanto meno, i suoi cantori: i poeti, appunto.

L’albero delle mele d’oro
4 marzo 2012

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