Il canneto
di Giovanni Pistoia
Il mare questa mattina è di un blu intenso, forte. Il cielo di un azzurro pallido, malaticcio, qualche nuvola confusa, come persa in uno spazio che non riconosce. Il vento è leggero quanto basta, però, per far dondolare le onde, che non hanno alcuna voglia di lambire la spiaggia. Sono onde che vengono dall’orizzonte e poi si dileguano, come d’incanto, avvicinandosi alla riva. Avanzano ordinatamente, con la cresta bianca e spumeggiante, come regolate da un bravo direttore d’orchestra. Mi fanno venire in mente i lunghi solchi tirati diritti nei campi dal passaggio del trattore con l’aratro e dai diversi colori della terra, ora chiara ora scura.
Due pescatori sono indaffarati con le loro lunghe canne da pesca conficcate nella sabbia, in attesa di qualche pesce che ha la sventura di capitare da quelle parti. A volte qualche rutto di vento fa piegare le lenze e allora il pescatore ha il suo bel da fare per tenerle in piedi. Qualche uccellaccio discende dietro un cespuglio per poi risalire velocemente.
Il canneto, alto e fitto, ha di fronte il mare. Una lunga striscia d’ombra si stende ai margini di una strada dissestata. Il canneto ha alle spalle una campagna incolta con del terriccio abbandonato. Mi avvicino all’ombra, che è gradevole, mi accarezza, anche se il sole non è forte. Guardo incuriosito il via vai degli uccelli e mi accorgo che dietro il canneto vi sono i resti di un cane morto. Sposto con le mani qualche giunco e vi inserisco la testa: un mormorio, un borbottare, un chiacchiericcio. C’è dentro un mondo sconosciuto. Il vento che vi è entrato non può più uscire, e si lamenta; la fauna che dentro si nasconde, al riparo dagli sguardi curiosi, tiene un concerto; anche la flora racconta storie misteriose, non lo so: certo è che mi pare, in alcuni momenti, di sentire delle voci, ora tristi ora allegre, il suono di un linguaggio a me sconosciuto ma realmente esistente, note su un pentagramma di erbe.
Mi ritrovo, senza volerlo, tra le canne. Ve ne sono di basse, di medie e altre altissime. Guardo le cime svettanti, spazzolano il cielo, si muovono come vuole il vento. Avanti e indietro, da destra a sinistra, e viceversa. Il loro oscillare ora è lento, ora è più svelto; a volte si esibiscono in vere contorsioni.
Il canneto, a pensarci, si nutre della polvere che viene dalla strada e dalle zolle senza semi, assorbe la salsedine, si piega ai venti, resiste al sole, si impregna d’acqua. Eppure, non si muove. Ha radici piantate, irrigidite nella terra ferma. Scruta, patisce e danza agli olezzi e ai profumi; è osservato, raramente; il più delle volte appena sfiorato; quasi sempre, bistrattato.
Se passate da quelle parti, dove il canneto ha di fronte il mare e alle spalle la campagna, e date uno sguardo attorno, vi sono anch’io; il canneto, generoso, mi ha accolto, giunco tra i giunchi.
Il canneto
di Giovanni Pistoia
9 ottobre 2011
Deve essere bella questa comunione con la natura e arrivare al silenzio avvolto nei suoi rumori. Come sempre grazie della tua sensibilità, di far diventare poesia le cose più semplici. Un caro abbraccio e buona settimana.
RispondiEliminaGrazie, gentilissima, come sempre. Buon lavoro anche a te. A presto
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