Il cavalluccio
di Giovanni Pistoia
Partirono negli anni quaranta per l’Argentina, erano tre fratelli di mio padre, io non li conobbi mai, se non attraverso le lettere che spedivano a casa. Quando la sera mio padre rientrava dal lavoro e trovava sul tavolo una busta bianca con i bordi colorati, sapeva che era qualcuno dei suoi fratelli dall’Argentina. Si sedeva con calma apparente, con delicatezza apriva la busta, e leggeva, in silenzio. Mia madre ed io lo guardavamo, e ci parlavamo con gli occhi; sapevamo che quello era un momento che viveva con grande partecipazione. A volte lo vedevamo trattenere le lacrime con grande sforzo. Aspettavamo la sua reazione, dopo una lunga riflessione riprendeva a rileggerla per noi, ad alta voce.
Ero poco più di un bambino e i miei genitori mi facevano partecipe della loro vita e di quella degli zii mai conosciuti; insomma, un piccolo adulto.
Erano lettere che esprimevano un affetto profondo per i familiari e un amore smisurato per il paese. Chiedevano sempre, quei miei zii, ogni cosa, non solo dei parenti e degli amici, ma della festa del patrono, di quella piazza se era sempre uguale a come l’avevano lasciata loro … volevano sapere tutto, anche le cose che apparivano le più inutili, non solo a me ma anche ai miei genitori. E mio padre, quando si accingeva a rispondere stava attento, era minuzioso nelle descrizioni, non doveva dimenticare niente. Dall’Argentina, aspettavano con ansia la risposta dal loro paese, per loro, ripeteva costantemente mio padre, quelle non erano solo notizie ma ossigeno per continuare a respirare.
Erano stati strappati alla loro casa, al loro paese, buttati su una nave e trasportati, come oggetti inanimati, verso un altro mondo, lontano, molto lontano. Espulsi dalla campagna, loro contadini giovanissimi, destinati alla fame, e per questo costretti a imbarcarsi per cercare fortuna. Da quelle lettere, vergate con penne malferme, traspariva una pena infinita, una pena che ha lacerato la mia anima, è penetrata nel mio cervello, e non ne è andata più via.
Chiedevano di me, volevano sapere tutto, mi conoscevano attraverso le descrizioni che ne faceva mio padre e grazie a qualche foto che, di tanto in tanto, attraversava l’oceano per raggiungerli.
Un giorno ricevemmo la solita busta, c’era una lettera indirizzata a me; gli zii scrivevano che mi avrebbero inviato un cavalluccio, un cavalluccio vero e che mi sarebbe arrivato, nuotando, dopo aver attraversato l’oceano. Mi invitavano, pertanto, a guardare sempre con giudizio il mare e la spiaggia perché, prima o poi, quel cavalluccio, sprizzante energia da tutte le parti, mi sarebbe apparso dalle onde. Sorridemmo tutti. Mio padre rivolgendosi a mia madre, chiese subito, perplesso: “E dove lo mettiamo … ” Ma capii che non poteva essere vero. Com’era possibile che un cavalluccio attraversasse il mare e arrivasse sano e salvo fino alla nostra spiaggia! Non so la discussione che ne seguì, ma m’innamorai di quell’idea.
Da quei giorni ne è passato del tempo, una vita! I miei zii non ci sono più da tantissimi anni, mio padre pure, e anche mia madre, che custodiva gelosamente quel pacchetto di lettere patriottiche, è andata via. La storiella del cavalluccio no, quella è rimasta.
Quando ho di fronte il mare, mi fermo sempre a guardarlo con giudizio. Lo scruto attentamente. Mi piace assorbirne le sfumature dei colori, i capricci delle onde. Mi lascio rapire dalle maree, quelle basse e quelle alte, quando il mare sembra voler dimostrare la sua forza, la sua potenza. E osservo la spiaggia, metro per metro, la guardo da un capo all’altro. È come se volessi inghiottire, immagazzinare quello spazio immenso, imprigionare colori e odori e memorie, e in essi liberarmi dalle pesantezze. Quel cavalluccio sarà, ora, un po’ grandicello, ma io l’aspetto ancora!
Il cavalluccio
di Giovanni Pistoia
13 ottobre 2011
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