La rosa
di Giovanni Pistoia
Raccolse con cura una rosa dal proprio giardino. Una rosa rosso porpora, petali morbidi, profumatissima. Dallo stelo lungo, ne tolse, con attenzione, le spine; e ammirò la rosa, avvolta dai raggi del sole mattutino. Le foglioline, tenerissime, ancora bagnate di rugiada. Si inebriò dell’odore, si riempì gli occhi della sua bellezza; nel silenzio del giardino ascoltò il fruscio delle foglie mosse, lievemente, dal volo degli uccelli.
Da sempre, quella sua casa, piccola ma molto graziosa, incuneata tra alberi e fiori coltivati (non mancano, di certo, i fiori di campo) è la sua abitazione. Ma lui, indaffarato uomo d’affari, non ha mai avuto il tempo di passeggiare nel giardino, ben curato dal suo giardiniere.
A testa bassa, infilato nei suoi abiti eleganti, tra le mani una borsa pesante di documenti, percorreva il viale: non vedeva, non sentiva.
Da qualche tempo, ora, è costretto a casa da una brutta malattia. Sta poco nelle sue stanze, spesso fa compagnia al giardiniere. Chiede dei fiori, degli alberi, si informa della loro vegetazione, dei travasi, dei semi.
Quella mattina fu attratto da una rosa che svettava dall’alberello. Prese le forbici e ne recise il ramo. “Oggi – disse – ti porterò sulla mia scrivania. Sei bellissima; da quando sei qui?” Domandò, ma non si aspettava una risposta. Eppure arrivò: “Da tanto tempo. Perché mi hai tolto le spine?” L’uomo guardò la rosa, che cambiò aspetto. “Perché sono tante e lunghe. Mi danno fastidio, mi pungono. Non le sopporto.” La rosa tacque per un istante. Poi si inclinò, i petali cominciarono a cadere, lo stelo a incurvarsi. “Tu non mi meriti, non sei degno di me – replicò con fatica – io sono la rosa e mi devi accettare per quella che sono, con i petali, le foglie, le spine. Senza spine sono indifesa, incompleta, umiliata, calpestata. Di me non sai nulla, non mi conosci, sono solo un oggettino dei tuoi desideri da mettere in un freddo vaso sulla tua fredda scrivania. Io sono la rosa, le spine sono anche la mia bellezza, il mio profumo, fanno parte della mia complicata misteriosa esistenza. Tu non mi meriti.” Lo stelo si piegò ancora, ormai flaccido; per terra i bei petali rosso porpora, le foglioline disseminate ai suoi piedi.
L’uomo guardò stupito il giardiniere, che, pacatamente, le mostrò le mani coperte dai guanti. “Vede signore – disse – io porto i guanti per non irritare gli arbusti, i fiori, loro sono sensibili e teneri, ruvidi e complessi, ma bisogna accettarli così come sono, anche con quel carico che per noi può essere inutile o fastidioso. Se, poi, alle rose si tolgono le spine, è come denudarle, violentarle, stuprarle, togliere loro la dignità.”
L’uomo restò muto per lunghi istanti; nella mano il rametto senza vita. Osservò quel suo piccolo parco, i rami nodosi degli alberi, le siepi, i rosai, i fiori: “Mio caro, ho attraversato per anni questo viale, e non mi sono accorto di niente, non ho imparato nulla. Si può fare del male, a volte, senza volerlo, per pura ignoranza, agli altri e anche a se stesso.”
Si chinò e raccolse delicatamente i petali sparsi, come a voler ricomporre cocci di cielo.
La rosa
di Giovanni Pistoia
22 ottobre 2011
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